Lesbiche e nazifascismo*

*di Laura Pesce
Diversamente dalle altre “categorie” di persone perseguitate dal nazifascismo, sull’oppressione delle lesbiche in Europa esiste purtroppo poca documentazione, questo per varie ragioni. Non ultima il fatto che la ricerca storica europea è stata ed è ancora oggi molto condizionata da forme di maschilismo ed eterosessismo. Inoltre le testimonianze sono poche e di difficile reperimento; basti pensare che dei circa 30 libri pubblicati da ex deportati, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, solo 5 sono stati scritti da donne e di questi solo uno parla esplicitamente di lesbismo nei lager. In effetti nell’Europa degli anni Venti e Trenta, per le lesbiche, la stessa esistenza era difficile e può essere considerata una forma di resistenza alla forzata normalizzazione imposta dai regimi nazifascismi. Inoltre per il ruolo del tutto secondario svolto dalle donne, dato dalla scarsissima considerazione di esse, l’omosessualità femminile non veniva percepita come una minaccia per la vita pubblica; nei primi anni i regimi si limitarono all’allontanamento delle (poche) donne da posizioni e professioni di prestigio a allo scioglimento dei movimenti femministi. Come ci ha detto poco fa Daniele, il Paragraph 175 (la legge che criminalizzava gli atti omosessuali) di fatto prendeva in considerazione solo l’omosessualità maschile, tuttavia alcuni permessi speciali ed altre leggi davano la possibilità alla polizia di arrestare le lesbiche (o sospette tali) con altre e diverse accuse; erano dunque condannate come asociali, prostitute, pervertite, moralmente corrotte, socialmente pericolose o genericamente con l’accusa di essere “persone anormali” quindi fuori dalla rigida uniformazione imposta dallo stato. Venivano perciò contrassegnate non con il triangolo rosa, del quale significato ci ha detto Daniele, ma spesso con quello nero (che indicava appunto le prostitute, le pervertite, eccetera). La scarsa documentazione esistente sulla persecuzione delle lesbiche deriva proprio dal fatto che venivano arrestate per i vari pretesti che prima vi ho elencato, non essendoci una legge specifica, e quindi l’accusa di lesbismo era solo menzionata (e non sempre) come concausa. Il lesbismo (l’omosessualità in generale) faceva parte di una lunga serie di comportamenti considerati deviati dalla legge già prima dell’avvento delle leggi razziali ed è per questo che raggiungiamo il paradosso di cui ci ha poco fa parlato Daniele, ma che tengo a sottolineare nuovamente: nessuno di coloro che i nazisti avevano internato con l’accusa di omosessualità (o prostituzione,ecc.) ebbe alcun tipo di risarcimento dopo la liberazione e dopo i processi. Anzi alcuni prigionieri dovettero finire di scontare la pena nelle comuni carceri! Questo ci fa notare chiaramente la diversa valutazione delle vittime dell’olocausto: gli omosessuali avevano in qualche modo “provocato” (se l’erano meritata) la loro punizione con il loro stile di vita deviato, mentre invece gli ebrei o i prigionieri politici erano stati perseguitati per la loro convinzione politica e per le loro origini. E’ a questo proposito che desidero sottolineare quanto lodevole sia l’iniziativa di questa vostra scuola che ha deciso di ricordare in questa sede l’Olocausto, non solo come sterminio degli ebrei, ma anche come persecuzione di tutte quelle minoranze considerate non utili all’incremento del “razza superiore” e che subirono lo stesso orrore. Ed è ancora più lodevole se pensiamo al fatto che ancora oggi in moltissimi paesi del mondo l’omosessualità è considerata reato, e anche nei paesi dove non lo è più, episodi di violenza (tanto verbale quanto fisica) a sfondo omofobico sono quasi all’ordine del giorno nella cronaca. Ancora oggi essere apertamente gay o lesbica è tutt’altro che semplice. Proviamo quindi a capire come poteva essere agli inizi del secolo scorso; di fatto nessuna donna all’epoca si sarebbe sognata di parlare esplicitamente della propria omosessualità, tanto meno dopo l’inasprirsi delle leggi contro questi “crimini”; anzi via via le donne accrebbero la loro capacità di vivere le relazioni nel modo più invisibile possibile. Le sospette venivano costantemente sorvegliate e spiate, quindi le relazioni intime, persino le amicizie strette, dovevano essere vissute in gran segreto. In quegli anni si celebrarono centinaia di “matrimoni di circostanza”: gay e lesbiche si sposavano fra di loro per salvare le apparenze; per salvarsi la vita. Molte lesbiche emigrarono, finché fu possibile, alcune si nascosero presso amici o parenti e si salvarono vivendo per anni in appartamenti dai quali non uscivano mai. Altre invece non riuscirono ad accettare l’idea di una tale condizione di vita e si suicidarono. Naturalmente, nonostante questa tenace resistenza, moltissime donne non riuscirono a sfuggire all’arresto e all’internamento nei lager. Le donne lesbiche erano due volte diverse, due volte colpevoli: in quanto donne e in quanto omosessuali. Ravensbrueck è stato il principale e più grande campo di concentramento per donne, ma ve ne furono molti altri; si trovava nel nord della Germania, nel Brandeburgo. Gli storici calcolano che solo a Ravensbrueck tra il ’39 e il ’45 siano state internate 130.000 donne. Come ci raccontano alcune sopravvissute, nel campo le donne lavoravano e morivano quotidianamente. C’erano le addette alla raccolta degli escrementi umani: dovevano portare il carico nei campi che i tedeschi intendevano fertilizzare, e, a piedi nudi, pestare gli escrementi perché penetrassero meglio nel terreno. C’erano le addette alla raccolta dei cadaveri che venivano trasportati nei forni crematori. Nei campi di concentramento maschili, come ci ha detto anche Daniele, vennero installati dei veri e propri bordelli e le ragazze che vi “lavoravano” (per così dire) venivano reclutate a Ravensbrueck; nei bordelli queste donne venivano umiliate e maltrattate dalle SS che costringevano i prigionieri del campo a violentarle. Le SS promettevano alle lesbiche che accettavano di trascorrere 6 mesi nel bordello, e che quindi accettavano di redimersi dalla propria omosessualità, la liberazione entro breve tempo. Ovviamente ciò non accadeva, al contrario queste ragazze morivano molto più rapidamente, consumate dalla malattie contratte. Molte testimonianze ci parlano delle gerarchie che si formavano nel campo, dei baratti, del “commercio della miseria”; era il modo direi più “primitivo” di sopravvivere. Le donne più “fortunate”, se si può usare questo termine, sfruttavano la loro posizione privilegiata, quindi le addette alla cucina si nutrivano meglio, sottraendo razioni di cibo alle altre, le addette al magazzino vendevano vestiti in cambio di pane, così come altre impiegate si facevano pagare in natura per qualunque genere di favore. Si trattava di vivere o morire, tutto era merce di scambio, tutto era in vendita, anche un po’ di calore umano. Tuttavia, dove comincia la prostituzione e dove si fermano la sessualità, l’affetto, la solidarietà e persino l’amicizia? Nel mondo del lager, dove non esiste nessuna logica se non quella della morte, dove tutte le prigioniere hanno fame e di fame muoiono, in un universo fatto di umiliazioni e crudeltà, possiamo pensare che l’affetto, le relazioni di amicizia, i legami anche amorosi e sessuali fossero l’unico modo per sopravvivere laddove i nazisti procedevano in direzione della disumanizzazione totale. I tedeschi lo sapevano bene: l’indebolimento nel corpo, tanto quanto quello nello spirito, portano all’annientamento della persona e di interi popoli.

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