Viaggio alle origini del cavallino alato, parla Beppe Ramina: "Arcigay senza una rotta"
Intervista a Beppe Ramina sul BLOG:OMOIOS
Il futuro di Arcigay (la più grande associazione nazionale a tutela di gay, lesbiche e trans) sta diventando un cruccio per molti: già in passato vi ho segnalato il moltiplicarsi di attacchi all'indirizzo del cavallino alato, e anche da queste pagine quando necessario non abbiamo risparmiato critiche. La rete è diventato il luogo privilegiato in cui questo dibattito si articola, attraverso nchieste, interviste, punti di vista. Non tutto, diciamocelo, svolto sempre con correttezza ed equilibrio. Eppure il tema merita serietà, perchè, come suggerisce la lettura di Max Forte, la tensione, in realtà, non è circoscritta alle quattro mura dell'associazione ma al contrario convolge il mondo dei partiti. E questo, dice Forte, sarebbe il motivo per cui tutte queste discussioni avvengono su canali che comunicano verso l'esterno. Tempo fa sono stato raggiunto da un invito di Gaynews24 per un'inchiesta in rete tra i diversi blog: ognuno un contributo, una voce. Ringrazio i ragazzi di Gaynews24 per la bella iniziativa alla quale ho scelto di contribuire con un'intervista a Beppe Ramina, socio fondatore del Cassero (una delle più antiche roccaforti del movimento lgbt, ora comitato provinciale Arcigay) e primo presidente nazionale Arcigay. La sua prospettiva "di lungo raggio" credo possa suggerirci spunti interessanti per il nostro dibattito. Buona lettura.
Dal giorno della sua fondazione Arcigay ha percorso un cammino lungo che inevitabilmente ne ha modificato, negli anni, il ruolo, la fisionomia, gli obbiettivi. Molto di questo cambiamento può essere letto come crescita, cioè naturale evoluzione, ma qualcosa è anche frutto di cambi di rotta o deliberate scelte di campo. Ramina, lei è stato il primo, nel 1984, a ricoprire il ruolo di presidente nazionale. Intanto, quali erano le vostre intenzioni quando avete fondato ArciGay?
«Nel 1980 don Marco Bisceglia, sacerdote del dissenso cattolico, gay, scomparso otto anni fa, creò Arci Gay. Successivamente Marco propose al circolo XXVIII Giugno di Bologna, che nel 1982 aveva conquistato la sede del Cassero di Porta Saragozza, di rilanciare quel progetto. La nostra idea era molto semplice: utilizzare la rete dell’Arci, fatta anche di sedi e disponibilità economiche, per dare solidità materiale ai collettivi delle varie città che in quegli anni nascevano e poi morivano con grande rapidità; inoltre, ci sembrava utile entrare in relazione stretta con una grande associazione della sinistra aperta e disponibile a confrontarsi con le nostre tematiche. Non ci interessava modificare il nostro punto di vista né i nostri modi di essere, ma contaminare quello dei nostri interlocutori spingendoli a schierarsi. Gli aspetti formali avevano ben poco peso; basti pensare che nei primi anni anche il circolo Mario Mieli di Roma, che non aderì mai ad Arci Gay, fece parte della segreteria nazionale dell’associazione e che il Cassero, dove era la sede nazionale, si affiliò ad ArciGay solo dopo alcuni anni».
Quanto la trova diversa oggi da allora? C'è qualcosa del progetto originario che lei ritiene sia andato perso o qualcos'altro che è rimasto e che ora risulta assolutamente obsoleto?
«Sono cambiate tante cose, è cambiata anche ArciGay. Meglio discutere di ciò che serve ora, a partire dal riconoscimento che l'associazionismo e l'attivismo glbtq oggi è molto più articolato. Nella mia città, Bologna, ci sono numerosi gruppi gay, lesbici, di identità transessuale, queer. ArciGay è ancora l'associazione più larga e nota a livello nazionale, ma non è più la sola. Occorrerebbe lavorare nella direzione di dar vita ad una federazione tra più realtà, con meno attenzione alla forma e dando più peso alla sostanza, valorizzando ciò su cui si concorda. Ma ci sono diffidenze dall'una e dalle altre parti che sono di ostacolo a questa ipotesi».
Alcuni anni fa l'associazione è passata attraverso una profonda trasformazione statutaria che ne ha modificato gli assetti. Quali sono stati secondo lei, ora che è trascorso un po' di tempo, i benefici e gli svantaggi di quella riforma?
«Quella “riforma” è stata uno dei motivi per i quali, dopo anni di distacco da ArciGay, sono tornato ad occuparmene per un breve periodo. Nel nuovo statuto, infatti, si prevede la creazione di comitati provinciali la cui struttura, in modo bizzarro e pasticciato, coincide con il circolo locale. E poiché, come si scrive all'articolo 4,Arcigay è una associazione nazionale articolata in Comitati provinciali” ne deriva uno spettacolare rivolgimento della struttura che da federativa diventa centralistica. Per statuto, se il Cassero con un'assemblea dei soci decidesse di uscire da ArciGay potrebbe venire commissariato, verrebbe indetto un nuovo congresso e il nuovo gruppo dirigente eletto tra chi vuol continuare ad aderire ad ArciGay sarebbe titolare anche della struttura e dei beni del Cassero, anche se la grande maggioranza di chi gli ha dato e gli dà vita fosse di tutt’altro avviso. Chi vuole rassicurare, sostiene che è una possibilità solo teorica, ma politicamente inesistente. Non è teorica: sta scritta nello statuto. Lo trovo inaccettabile, non solo per il Cassero, ma per ogni circolo/comitato provinciale. Trovo molto significativo – in negativo - che sia stato proposto e approvato uno statuto di questo tipo. Un fatto inaccettabile».
Dentro Arcigay convivono da sempre due anime: il circuito dei circoli ricreativi da una parte, quello dei circoli politici dall'altra. Secondo lei questa doppia identità è una zavorra per Arcigay e se sì come liberarsene?
«Non si tratta di una zavorra, è parte integrante di ArciGay così come è venuta a costituirsi negli anni. Trovo che, in una fase pionieristica, quella di affiliare circoli commerciali sia stata una scelta opportuna, che ha sostenuto la nascita di spazi di socialità e offerto opportunità di lavoro a molte persone gay, transessuali, lesbiche. Oggi può anche essere considerata una scelta da ripensare, ma non è questo che determina la politica di ArciGay: il circuito commerciale, al di là di una manciata di voti da spendere al congresso nazionale, non ha peso politico né intende averne».
Arcigay viene accusata dall'ala antagonista del movimento di essersi "contaminata" in fretta con i partiti, nel senso di aver creato un percorso quasi obbligato tra la gerarchia dell'associazione e quella delle formazioni politiche, al punto da far sembrare la prima anticamera dell'altra. In una recente intervista il presidente Aurelio Mancuso ha ammesso che Arcigay ha sbagliato a fidarsi della politica. Lei è d'accordo, è questo il peccato originale?
«In breve tempo il rapporto con i partiti si è rovesciato e spesso l'associazionismo glbtq, anziché cercare di contaminarne le culture e le scelte, le ha subite, è stato contaminato. Questo è stato uno degli errori di fondo, non solo di ArciGay. Chi ha incarichi in un'associazione, specie quelli di maggiore responsabilità, non dovrebbe avere tessere in tasca, dovrebbe rispondere solo ai propri soci. Al di là del rapporto con i partiti, mi pare che sia l’adozione stessa di categorie politiche a indebolire l’energia che avrebbe il pieno dispiegarsi del discorso delle sessualità dei generi, delle omosessualità, del nomadismo identitario. Penso che all'origine della debolezza di visione ci sia qualcosa che affonda nella cultura, che ha a che fare con l'introiezione del pregiudizio omofobiico. Da qui un'idea minoritaria di noi stessi, come comunità di persone e come singoli individui; la convinzione, declinata in vari modi, di essere una minoranza e non una parte della società. Agisce altrettanto negativamente la radicata ed estesa convinzione che esistano per davvero persone eterosessuali e persone omosessuali – e che non siano costruzioni sociali - e che il nomadismo erotico e affettivo non sia l'orizzonte di riferimento. Infine, la percezione diffusa di essere vittime e non protagonisti. È vero, l'omofobia è pesante è attiva, ma le minacce e le botte non ci piegano più al silenzio, ci ribelliamo, ci opponiamo, non siamo più vittime. Come ricordano gli attivisti del Pink di Verona, abbiamo alzato la testa. Ora siamo protagonisti della storia».
Arcigay si trova a dover fare i conti con il bilancio assolutamente insoddisfacente delle conquiste di questi anni. Parliamo dei Pacs: contro quale muro andò a sbattere secondo lei quella battaglia? Fu solo un problema di ingerenze del Vaticano nella politica, come spesso si dice, o c'è dell'altro? Non sarebbe stato meglio scommettere dall'inizio direttamente sui matrimoni?
«Le premetto che non sono d'accordo con chi pensa che i successi a livello istituzionale siano la misura della nostra forza e del nostro benessere. Nel momento in cui siamo protagonisti della nostra vita e della nostra storia abbiamo già ottenuto la sostanza di ciò che ci serve: la mia serenità e la mia libertà, anche di lottare, non dipendono dalle concessioni dello Stato o del Vaticano, ma dal darmi valore e agire in autonomia. Comunque, voglio rispondere alla sua domanda. Per alcuni anni in Italia è sembrato che una forma di riconoscimento, simile ai Pacs francesi, potesse concretizzarsi e l'ultimo governo Prodi aveva alimentato qualche speranza in più. Credo sia stato opportuno che il Parlamento abbia lavorato in quella direzione fino a quando c'è stata una possibilità di successo. Ma quello della mediazione è lavoro dei parlamentari, che ne hanno titolarità, non spetta a noi. La parte di associazionismo e movimento interessata ad un riconoscimento giuridico avrebbe forse dovuto, in autonomia, insistere sulla piena uguaglianza e sul matrimonio».
La rete Lenford - una formazione di avvocati impegnati nel riconoscimento dei diritti alle persone glbt, sta portano avanti un'azione giuridica che è riuscita ad arrivare sui tavoli della Corte Costituzionale , che presto dovrà pronunciarsi sulla costituzionalità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Che risultato si aspetta da questa iniziativa? Sarà di qualche utilità al movimento?
«È un'ottima iniziativa, bisogna complimentarsi con chi ha investito intelligenza, tempo e denaro per portarla avanti con successo, fino ad arrivare all'Alta Corte. È bene che si utilizzino tutte le armi a disposizione per minare questa società che si vuole composta da omologati ineguali e il ricorso alla giustizia è una di queste. Nella migliore delle ipotesi, stando anche a quanto dicono amici giuristi, mi aspetto che la Corte Costituzionale inviti il Parlamento a legiferare perché i principi di uguaglianza fra tutte le formazioni sociali venga stabilito anche nelle leggi. Penso che difficlmente potrà e vorrà stabilire motu proprio la validità del matrimonio tra due persone dello stesso sesso».
Il Pride è un punto di contrasto molto acceso all'interno del movimento: una frizione che ogni anno si rinnova con formule, stilemmi ed esiti assolutamente identici. C'è modo, secondo lei, di attraversare definitivamente questo guado?
«Pride cittadini e regionali si tengono ogni anno e con successo in molte località dal Sud al Nord. L'appuntamento nazionale raccoglie l'adesione entusiastica di decine di migliaia di persone e l'impatto sui media e sulla politica nazionali è pressoché lo stesso, indipendentemente dalla città in cui si svolga. Anziché accapigliarsi sul fatto se debba essere sempre nella Capitale oppure no - questione che mi pare interessi poco lo stesso circolo Mario Mieli di Roma – immagino che si dovrebbe cercare di cogliere e valorizzare la grande ricchezza umana, sociale, politica che si manifesta in queste occasioni. Chi si attarda sulla sponda avrà le sue ragioni per farlo, ma il guado lo ha già superato chi partecipa ai Pride ovunque si tengano».
Infine: Arcigay si prepara a un nuovo congresso che ne confermerà o ridefinirà i vertici e gli indirizzi politici. Lei cosa si augura a questo proposito?
«Ho l'impressione che ArciGay si stia muovendo senza una rotta, per improvvisazioni. Nei circoli e nelle strutture nazionali ci sono molte persone che fanno ottime cose e con generosità; ma ArciGay manca di visione, non riesce a focalizzare la propria missione e questo penalizza anche le buone cose che vengono realizzate. All'ultimo congresso sono stato fra coloro che hanno contrastato l'elezione a presidente di Aurelio Mancuso - e non per le questioni da bottegai che leggo su gay.it -; ho condiviso la scelta del direttivo di allora del Cassero che decise di non far parte della segreteria nazionale per marcare la propria distanza. Aggiungo che, a mio modo di vedere, il Cassero dovrebbe uscire da ArciGay, in quanto l'associazione nazionale è appesantita e sostanzialmente irriformabile. C'è necessità di una scossa che rimescoli le carte nel panorama del movimento lgbtq nazionale e locale, e penso che il Cassero dovrebbe contribuire a tracciare strade nuove, anche per quanto riguarda le proprie attività. Sento dire che in ArciGay un nuovo gruppo di persone (e forse non tutte così nuove) e di circoli si appresterebbe a candidarsi alla presidenza nazionale al prossimo congresso. Ma credo che ci si sbaglierebbe se si pensasse di risolvere le questioni sul tappeto solo con un cambio di vertice. Può essere la premessa di un cambiamento necessario, non il punto di approdo».
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